L'ironia di Socrate

IL “BUFFONE DI ATENE”

  Minucio Felice, scrittore cristiano del III secolo d.C., coniò questa curiosa espressione in un'opera polemica contro la cultura classica, in cui Socrate è definito scurra Atticus, cioè “buffone di Atene” (Octavius, 18). Non abbiamo difficoltà a convenire che poche volte una definizione fu più indovinata di questa.
  Socrate non è infatti un filosofo nel senso convenzionale del termine. Non è un maestro che trasmette la sua scienza agli scolari: è un innamorato della verità, alla cui ricerca si dedica con tutte le risorse dell'intelletto. È uno studioso che, non avendo una dottrina propria, mette in discussione quelle degli altri, un maestro che non insegna ma si mette alla scuola degli altri maestri, di cui la città abbonda.
   Socrate scopre infatti di vivere in una città dove, curiosamente, tutti sanno tutto di tutto, e dove ciascuno sa dare la giusta risposta a ogni tipo di domanda. Egli cerca dunque di imparare da coloro che sanno, nel desiderio di accrescere il proprio bagaglio culturale.
  Il suo filosofare, come si è già visto, consiste nel porre domande per avere risposte. Domanda a coloro che si professano competenti che cosa sono la verità, la saggezza, il bene, la santità, la giustizia, il coraggio, se si possa insegnare la virtù, e tutte le altre cose che formano il patrimonio spirituale dell'uomo. Domanda ai politici che cosa sia il buon governo, ai poeti e agli artisti che cosa siano la poesia e l'arte, a coloro che esercitano professioni e mestieri in che cosa consista la loro specifica competenza. Esige nelle risposte chiarezza e precisione secondo le regole dell'eu leghein che gli oratori attici hanno da poco elaborato.
  I risultati delle sue inchieste sono però deludenti. Ogni indagine si conclude con la distruzione della teoria esaminata. Quando dal vago e dall'incerto si deve passare alla chiarezza, anche i più arditi nel rispondere si perdono in chiacchiere e le “verità” che essi credevano più certe si dissolvono come la nebbia al sole. Infine si arrendono e devono confessare la propria ignoranza.
  Sulle rovine dell'edificio distrutto non sorge però l'edificio della nuova scienza. Nell'economia del dialogo Socrate è infatti il soggetto ironico, e il metodo ironico non prevede la formulazione di nuove dottrine. Coerentemente al metodo, dunque, Socrate afferma di non sapere nulla, e quando è invitato a esporre la sua opinione non la espone come propria, ma come un'ipotesi formulata da altri. Così, nel Simposio, quando viene il suo turno di dissertare sulla scienza dell'amore, espone come mera ipotesi ciò che ha appreso dalla sacerdotessa Diotima di Mantinea.
  Detestato dalle autorità e dai custodi della cultura tradizionale, il metodo ironico affascina però le menti degli ascoltatori. Nel suo discorso ai giudici Socrate dirà che chiunque era libero di interrogarlo, ma afferma anche di non avere mai promesso a nessuno di fornirgli una qualsiasi verità o di renderlo più sapiente. Eppure sono molti coloro che si fermano a discorrere con lui nei luoghi più diversi, per la strada o nell'agorà, tra i banchi del mercato, nei giardini del Liceo, o in altri luoghi ancora.
  I suoi ascoltatori sono persone assai diverse per età, condizione sociale, professione, orientamento ideologico  e collocazione politica. Vi sono filosofi come Euclide, Antistene, Aristippo e il giovane Platone che in seguito raccoglierà in una serie di dialoghi la sostanza di quelle conversazioni. Vi sono esponenti della borghesia e dell'aristocrazia, come Alcibiade, Crizia, Carmide e i due fratelli di Platone, Glaucone e Adimato. Vi è Senofonte, che raccoglierà nei Memorabili le sue sentenze più incisive. Vi è il poeta tragico Euripide, che è stato discepolo di Anassagora e condivide la sua visione razionale del mondo. Vi è l'umile gente del popolo, bottegai, carrettieri, operai, fabbri, artigiani. Numerosi sono i giovani, affascinati dal suo modo di parlare, dal suo anticonformismo, dalla sua personalità fuori del comune. Ad accrescere la curiosità della gente contribuiscono le sue qualità fisiche e spirituali: la vitalità, la vigoria, il coraggio intellettuale.
  Socrate non è esteriormente bello. Il suo aspetto, se prestiamo fede alle fonti antiche, è quello di un satiro. La forma del suo naso era famosa nell'antichità. Macrobio riferisce nel Saturnali (VII, 3, 11) che la caratteristica forma del naso a patata era scherzosamente definita “depressione socratica”. Ma Socrate è colto e intelligente, e privo di timori reverenziali, ha coraggio e ascendente. La sua persona, anche se non molto gradevole a prima vista, sprigiona un fascino irresistibile. Platone descrive in una scena del Simposio la sua personalità con le parole di Alcibiade il quale, al termine del convito, ne pronuncia un appassionato elogio:

  “Sotto l'aspetto fisico Socrate non è bello. Esteriormente somiglia alla statua del satiro Marsia, o a quelle dei Sileni che si vendono per pochi soldi sulle bancarelle del mercato e che contengono al loro interno immagini di dei. Come quelle statue, Socrate è esteriormente simile a un buffone, ma quando apre i tesori della sua mente, appaiono le cose più splendide: intelligenza, virtù, fermezza, coraggio, disprezzo per tutte quelle cose di cui gli altri uomini non sanno fare a meno. E come il satiro Marsia incantava gli uomini col suono del flauto, così Socrate li incanta col fascino della parola.
  “Quando ascoltavo i discorsi di Pericle”, continua Alcibiade, “capivo soltanto che Pericle era un uomo che sapeva parlare bene. Ma quando ascolto Socrate, sento il cuore balzarmi nel petto, mi commuovo fino alle lacrime, e mi accorgo che moltissimi altri provano le mie stesse emozioni. Eppure quei discorsi non hanno nulla di particolare, non sono costruiti secondo le regole della retorica e non fanno uso di quegli artifici con cui gli oratori di professione danno eleganza al loro parlare e riescono a strappare gli applausi. Non hanno lo scopo di persuadere, ma di far conoscere la verità.
  “Perciò i discorsi di Socrate sembrano a prima vista cose da ridere, perché lo senti sempre parlare di asinai e di asini da soma, di fabbri, falegnami, cocchieri, ciabattini e conciapelli, e pare che dica sempre le stesse cose con le stesse parole. Eppure quei discorsi sono i soli che hanno un'anima. Per questo hanno la forza di affascinare gli ascoltatori e di far nascere in chi li ascolta il desiderio di  una vita migliore.
  “Straordinaria è in Socrate la capacità di godere la vita nei momenti di baldoria, di partecipare all'allegria comune e di darsi all'ebbrezza pur rimanendo sempre padrone di sé. Batte tutti gli altri nel bere e tuttavia nessuno lo ha mai visto ubriaco. Resiste più di tutti alle fatiche, al freddo, alla sete, alla fame. Nessuno è più paziente, affabile e tollerante come lui. Possiede le capacità di un capo, eppure si mette sempre a disposizione degli altri. Straordinaria è la sua capacità di raccogliersi nella propria mente, isolandosi dal mondo circostante. Così a Potidea, durante la battaglia contro gli spartani, egli rimase immobile, in piedi, dall'alba di un giorno fino all'alba del giorno successivo. Ma questo astrarsi dal mondo è abituale in Socrate: gli accade tutte le volte che gli viene incontro la sapienza”.

  La descrizione che ne fa Platone nel Simposio attraverso le parole di Alcibiade è la chiave per interpretare la funzione da lui svolta nella società del suo tempo come creatore di una nuova mentalità e diffusore di un nuovo tipo di cultura. Quelle parole dimostrano che Socrate rovescia la scala dei valori sui quali si regge la società. Sono relegati all'ultimo postoý quelli basati sulla phýsis, e cioè sulla nuda apparenza, come la prestanza fisica, la rispettabilità, il perbenismo, la ricchezza, il potere, la gloria, i riconoscimenti formali. Durante la battaglia di Potidea, Socrate aveva salvato la vita di Alcibiade ma non si era vantato del proprio eroismo. Aveva anzi rinunciato alla ricompensa che era stata proposta per il suo atto di valore, facendola assegnare allo stesso Alcibiade. A questo tipo di valori contrappone quelli interiori, fondati sullo spirito, meno appariscenti ma più conformi alla natura razionale dell'uomo.
  Perciò anche il linguaggio di Socrate è volutamente disadorno, semplice e sobrio. Rifiuta l'eleganza formale e gli abbellimenti retorici a cui ricorrono coloro che cercano l'applauso. È convinto che la verità abbia in se stessa la virtù di persuadere. Il suo modo di parlare è l'esatto contrario di quello del retore di professione. Dice infatti ai giudici all'inizio del processo:

  “I miei accusatori vi hanno avvisati di stare in guardia da me perché io sarei capace di trarvi in inganno con le mie capacità oratorie. Essi però mentono e la loro menzogna sarà evidente non appena io prenderò la parola, perché si vedrà benissimo che non possiedo nessuna capacità di questo tipo, a meno che non si chiami buon oratore quello che dice la verità” (Apologia, 17a-b).

  La materia dei suoi discorsi è presa dalla realtà quotidiana e dall'esperienza comune. La dignità della sua conversazione non è sminuita dal parlare dimesso né dalla figura fisica del filosofo che contrasta in modo stridente con la profondità del suo pensiero.
  Nel Simposio Socrate è rappresentato come un buffone, e tale forse appare alle persone superficiali, agli amministratori del sapere tradizionale e ai seguaci delle idee dominanti. Ma Socrate accetta senza pregiudizi l'immagine che gli altri si sono costruita di lui. E se l'immagine non corrisponde al vero, egli non conserva rancore. Confuso tra gli altri spettatori, aveva applaudito le Nuvole di Aristofane che lo dileggiavano, e con lo stesso spirito, se fosse stato ancora in vita, avrebbe forse applaudito le violenze verbali di Minucio Felice.
  In realtà Socrate ha compreso che la funzione di messaggero di una cultura innovatrice e di una mentalità nuova non può essere svolta che sotto panni dimessi  e protettivi. La verità è spesso impertinente, impresentabile, sfacciata e nuda, spesso offende e talora suscita scandalo, in quanto non obbedisce al criterio della rispettabilità. Viene perciò tollerata nelle società perbeniste solo se si presenta come semplice “scherzo”, senza ambire alla dignità che hanno le cose serie. In altre parole, la verità può essere detta solo a patto di essere presentata sotto forma buffonesca.
  Chi adora la rispettabilità e ne fa il suo idolo è solito giudicare dalla qualità del linguaggio quello del contenuto. Ma l'uomo avveduto riconosce sotto il comico di superficie la superiore dignità del messaggio. Così si legge nei testi sacri che Dio ha scelto gli stolti per confondere i savi. Ma gli “stolti” sono spesso consapevoli della nobiltà della loro missione: “io non sono che uno scemo”, dice il buffone Ianacchi a Ludovico il Moro nel romanzo La rinascita degli dei di Merežkovskij, “ma le cose che ti dico sono vere”. E il saggio re Montezuma affermava che i buffoni sono utili ai principi più dei loro più avveduti consiglieri, perché essi soli hanno il coraggio di dire la verità. Nella repubblica di Utopia Tommaso Moro mette al bando gli inutili, gli oziosi, i fannulloni e i perditempo, cioè tutti coloro che non sono utili né a se stessi né agli altri. Tra costoro l'autore inserisce anche i teologi. Ma i buffoni vi sono onorati e protetti, perché da essi si ricava svago e utilità.
  Nelle corti medievali il buffone è il solo a cui sia lecito dire la verità al principe. La verità perde infatti il suo carattere offensivo se è detta dal buffone, perché il buffone, per sua natura e per convenzione, non può parlare seriamente. Egli gode della licentia ioci, cioè del diritto di scherzare, perché quello è il suo mestiere. Egli ride e fa ridere, e gioca con le parole, al solo scopo di divertire.
  Il buffone di corte rivela di solito una maggiore intelligenza nei confronti degli altri cortigiani, ma è costretto a nascondere  la sua superiorità intellettuale sotto abiti istrioneschi. L'intelligenza non può infatti penetrare nei covi del potere se non travestita, e il travestimento migliore è costituito dai panni del buffone. Grazie a questo stratagemma il messaggio della saggezza può superare le barriere della censura e giungere indenne alla sua destinazione.
  Anassagora e Protagora avevano presentato “seriamente” le loro teorie al pubblico di Atene, e questo era stato il loro errore. La grave imprudenza aveva messo a repentaglio la loro vita. Ma se indossa i panni del buffone, la pericolosità del vero sfugge quasi sempre a chi giudica dalle apparenze. Nella sua qualità di “buffone di Atene”, Socrate può dunque permettersi di demolire pubblicamente i miti più venerati, di ridurre in pezzi le teorie più care agli uomini di potere, di rivelare l'aspetto falso di una cultura il cui solo scopo è quello di assicurare alle classi dominanti il loro diritto a dominare.
  Così nella letteratura il compito di dire le verità spiacevoli e di esercitare la critica sociale è affidato di preferenza al teatro comico. Questo compito, nelle letterature classiche, è svolto dagli scrittori di commedie come Menandro, Plauto, Terenzio. Nelle loro opere s'incontra spesso l'ironia, e il metodo del parlare ironico, nella commedia greca e latina, è usato di preferenza dagli schiavi.
  Lo stesso avviene nelle letterature moderne. Nella prefazione al Gargantua, Rabelais dichiara di avere scritto il suo esplosivo libro al solo scopo di divertire un pubblico di bevitori e di libertini. La finzione ha lo scopo di avvertire il lettore avveduto che, sotto le divertenti follie che abbelliscono il racconto, si cela un contenuto di verità che di solito sfugge al lettore disattento. Così, nei “pensieri che hanno un'anima” di Socrate, si celano sotto l'aspetto buffonesco le verità profonde che solo uno sguardo non distratto è in grado di scoprire.
  Questa caratteristica del linguaggio socratico, tuttavia, non sempre traspare dai dialoghi di Platone, il quale attribuisce spesso a Socrate un linguaggio e un contenuto di pensiero che non gli appartengono. Si avanza il sospetto che Platone abbia rappresentato un Socrate diverso da quello che era nella realtà, e che abbia prestato al personaggio molto di se stesso, non solo delle sue idee, ma anche della sua anima aristocratica e della sua rispettabilità di uomo perfettamente inserito nella società del suo tempo. Il sospetto è avvalorato dalla testimonianza di Cicerone, il quale afferma che Platone modificò sostanzialmente il linguaggio e il pensiero di Socrate, mescolando la sua arguzia all'oscurità di Pitagora e attribuendogli la profonda dottrina di quest'ultimo (De republica, I, 16). Pensiamo dunque che lo faccia parlare e agire come avrebbe parlato e agito lui stesso. Anche nei più “socratici” tra i dialoghi platonici, lo stile dei discorsi è grave e paludato, e la “serietà” della forma appare fin troppo congruente con la profondità dei contenuti.
  Lo stile di Socrate doveva essere tutt'altra cosa. I suoi discorsi avevano probabilmente un tono più familiare, allegro, brioso, divertente. Pensiamo che si dovesse esprimere e comportare come lo descrive Alcibiade nel Simposio: un uomo che beve e scherza con tutti, che parla in modo che anche i più ignoranti lo possano capire, con argomenti tratti dal vivere quotidiano, come farebbe un qualsiasi uomo del popolo, semplice, pratico, concreto.
  Dopo la sentenza che lo condannava a morte, Socrate non rivolse probabilmente ai giudici il patetico discorso che leggiamo nell'Apologia. Ci atteniamo ancora una volta alla testimonianza di Cicerone secondo il quale Socrate parlò in quella circostanza “liberamente e con fierezza” (Tusculanae, I, 71). È più credibile dunque che abbia espresso gli stessi concetti nel linguaggio pittoresco che gli era abituale, parlando di asinai e di asini da soma, di carrettieri e di conciapelli. E Socrate lo poteva fare, perché non si abbassò a lusingare i giudici per ottenere l'assoluzione, come si usava allora fare nei processi, perché non aveva paura né dei giudici né della morte. In questo modo lo intesero nell'età del Rinascimento i grandi scrittori controcorrente: Rabelais, Erasmo, Montaigne.
  Rabelais indugia sull'aspetto fisico del filosofo, che contrastava in modo così stridente con la sua mente divina:

  “Ridicolo nel portamento, con il naso a pallottola, lo sguardo di un toro, la faccia di un buffone, semplicione nei modi … sempre ridente, sempre pronto a bere a gara col primo venuto, sempre pronto a scherzare, sempre dissimulando il suo divino sapere” (Gargantua, Prologo).

  Il grande Erasmo, spregiatore della romanitas e dei valori ad essa collegati, come il culto della rispettabilità, della dignitas e della gravitas, fa di Socrate l'esponente di una santità laica. Egli raccoglie negli Adagia, insieme alla venerazione per il maestro, anche l'accostamento di Socrate alle statue dei Sileni di cui avevano parlato Platone e Senofonte.
  Montaigne descrive il contrasto tra la profondità del pensiero e l'umiltà dello stile, che costituisce ancora oggi il maggiore ostacolo per il lettore comune:

  “Socrate fa muovere la sua anima con un movimento semplice e naturale. Così parlerebbe un contadino, così si esprimerebbe una qualsiasi donna del popolo. Chiunque è in grado di capirlo. Induzioni e similitudini sono tratte dalle più abituali e comuni azioni degli uomini. Sotto una forma così umile non avremmo mai saputo cogliere la nobiltà e lo splendore delle sue mirabili concezioni” (Essais, III, 12).

  Questo stile personalissimo è il primo grande esempio di mescolanza di contenuto serio e forma comica. Socrate irride anche nella forma al fasto esteriore e al culto del potere, mentre rivela un assoluto rispetto per la dignità dell'uomo. Lo stile dei suoi discorsi rispecchia il suo carattere.  Nella persona di Socrate le qualità spirituali si fondono con quelle del corpo. Alla vitalità intellettuale si unisce una vigoria fisica eccezionale.
  Il Simposio si chiude con una scena affascinante. Alle prime luci dell'alba la maggior parte dei convitati, ormai esausti, escono dalla sala del banchetto e fanno ritorno alle loro case. Altri invece arrivano per continuare la festa. Socrate, che è famoso per la sua sobrietà, si ferma a conversare e a bere coi nuovi venuti. Alla fine, quando anche questi convitati, sopraffatti dal vino, dalla stanchezza e dal sonno, giacciono addormentati qua e là per la sala, Socrate, che ha bevuto più di tutti e più degli altri ha tenuto desta la conversazione, se ne esce perfettamente padrone di sé, e si reca, modesto e tranquillo, ai giardini del Liceo a riprendere la vita di ogni giorno.
  Una tale condotta di vita richiede qualità psicofisiche non comuni, ma non presenta nulla di eccezionale. È il risultato della perfetta coordinazione tra il corpo e la mente, del dominio totale di se stesso, della presenza sempre vigile dell'intelligenza in ogni singola azione, gesto e parola.
  La cosa più notevole, in Socrate, è la perfetta sintonia tra energie fisiche e intellettuali. Il vigore fisico, la resistenza ai disagi, al sonno e alle fatiche, sono in lui il risultato del completo dominio della mente sul corpo. A questo scopo Socrate, come racconta Apuleio (Apologia, 15), si serviva anche dello specchio come strumento di disciplina morale. In lui la vita biologica si uniforma al dominio dell'intelletto. I centri della vita psichica assumono il pieno controllo dei centri della vita organica, adeguandoli alle superiori esigenze dello spirito. È esattamente ciò che avviene in un uomo che gode della più completa libertà interiore e non è soggetto ad alcun tipo di condizionamento esterno. L'uso dell'ironia applicato alla vita pratica si trasforma, nel suo caso, in un'etica della libertà.
  Il suo aspetto esteriore ne esce dunque trasformato. L'intelligenza trasfigura la stessa persona. Alcibiade conclude il suo discorso nel Simposio dicendo che Socrate è bello. È un'affermazione, a nostro giudizio, stupendamente vera. Socrate è bello nonostante il suo aspetto fisico, nonostante il naso a patata e l'aspetto da satiro, perché è un uomo che ha intelligenza e coraggio, perché è nato per essere libero, vive e pensa da uomo libero, e ha il coraggio della libertà in ogni sua manifestazione: libertà di dire di no, libertà di dire quello che pensa, libertà dalle costrizioni esterne e dalla forzata uniformità del gregge, libertà dal timore della sofferenza e della morte, senza la quale tutte le altre libertà sono impensabili. Ma l'affermazione di Alcibiade non ci coglie di sorpresa. Sappiamo infatti dalla moderna psicologia analitica che lo stesso artista che dà forma al naso dell'uomo dà forma anche alla sua mente e plasma i suoi sentimenti e i suoi pensieri.
  Il concetto era già noto al pensiero antico. Anche Saffo, secondo la commedia attica antica, era brutta sotto l'aspetto fisico. Ma Platone, nel Fedro, la definisce intrepidamente “Saffo la bella”, facendo eco al poeta Alceo che ne aveva delineato in un verso famoso una graziosa immagine: “coronata di viole, pura, Saffo dal dolce sorriso”. Si avvera in lei come in Socrate il rapporto che si instaura tra materia e spirito, quando quest'ultimo assume la funzione di guida: “l'anima migliora il corpo con la virtù che le è propria” (Repubblica, III, 403d).