Letteratura latina

LUCREZIO

3. La vita

Di Lucrezio non si sa quasi nulla. Una leggenda che non si rassegna a morire vuole che il poeta, dopo essere uscito di senno per avere bevuto una bevanda afrodisiaca, abbia composto il suo poema - De rerum Natura - durante gli intervalli liberi dalla pazzia, finché, terminato il lavoro, si sarebbe dato la morte con le proprie mani.
Non si deve imputare a San Gerolamo, e neppure a Svetonio che è la sua fonte, l'avere diffuso, l'uno nel Cronicum, l'altro nel De poetis, questi strani dati biografici. Probabilmente sono stati inventati durante la vita stessa del poeta allo scopo di gettare il discredito sulla sua persona, e di riflesso sulla sua ideologia.
La lotta contro la filosofia epicurea, invisa alla classe dirigente romana, è condotta a Roma con particolare acredine. Perfino Cicerone, che è un uomo abitualmente tollerante, non nasconde il desiderio di vederla messa al bando (De finibus, II, 30), pur riconoscendo che gli epicurei, sotto il profilo morale, sono migliori degli altri uomini (De finibus II, 81).
L'epicureismo non è accetto alle classi dominanti romane perché offende la loro concezione del potere. L'appellativo “epicureo” acquista perciò un significato negativo che si accentua col passare del tempo e si riflette nella letteratura. In età augustea Tito Livio attacca irosamente l'epicureismo, definendolo «una dottrina che disprezza gli dei» (X, 40, 10).
Fa eccezione Seneca il quale, pur essendo personalmente avverso all'epicureismo, non esita, per filosofico amore di verità, a difendere gli epicurei dalle calunnie rivolte contro di loro:

«È mia opinione personale, e lo dirò anche a dispetto degli altri filosofi, che i precetti di Epicuro sono venerabili e retti e, visti da vicino, severi... Perciò non ripeto, con i più dei nostri filosofi, che la setta di Epicuro è una scuola di perdizione, ma affermo che essi la calunniano senza motivo» (De vita beata, XIII, 4).

Ma l'amore del vero nulla può contro gli eccessi dell'intolleranza. La dottrina di Epicuro è invisa perché predica l'astensione dalla vita politica e nega il provvidenzialismo della storia, caro alle classi detentrici del potere, e perché l'egualitarismo della sua scuola costituisce un pericoloso esempio di società senza classi. Perciò l'avversione a Epicuro si trasmette in seguito dalla cultura pagana a quella cristiana, che farà di lui un eversore ignorante, folle e lussurioso. Più tardi il termine “epicureo” sarà sinonimo di eretico. In quest'ottica di denigrazione si spiegano la deformazione della figura di Lucrezio e la leggenda della sua pazzia intervallata da pause creative. Quando prevalgono le passioni e difettano i buoni argomenti, si ricorre spesso al miserevole espediente di gettare il discredito sulla persona allo scopo di colpire le sue idee.
Nato nel 98 (secondo altri nel 96), Lucrezio muore all'età di 43 anni, secondo la notizia data da San Girolamo, e dunque nel 55 (o nel 53). Ignoriamo il luogo della nascita. Probabilmente era campano. La sua opera dimostra che possedeva una vasta cultura comprendente la conoscenza di varie discipline, comprese la fisica e la medicina.
Apparteneva probabilmente alla classe degli ottimati, tra i quali cercò di diffondere le nozioni essenziali della filosofia epicurea. Dedicò il suo poema a C. Memmio, pretore nel 58 e governatore della Bitinia l'anno seguente in qualità di propretore. Il suo poema fu pubblicato da Cicerone dopo la sua morte prematura.
Possiamo supporre che, in coerenza con la sua fede epicurea, si sia astenuto dalla partecipazione alla politica e abbia condotto vita estremamente ritirata, con rare apparizioni in pubblico. Solo così si possono spiegare le sorprendenti dicerie relative alla sua vita privata.
Di lui parlano poco le fonti contemporanee. Cicerone lo nomina in una lettera del febbraio 54 al fratello Quinto. Lo ricorda Cornelio Nepote in un fuggevole cenno (Vita di Attico, XII, 4). 

4. Contenuto del De rerum natura
 
L'opera è divisa in sei libri organicamente ordinati. Il I e il II contengono le premesse del sistema, cioè la fisica, scienza che è la base delle altre scienze e dello stesso sistema morale:


In principio vi sono gli atomi, o corpora prima, detti anche semina rerum ed exordia rerum, che sono gli elementi invisibili e indivisibili di cui sono fatte tutte le cose. Nulla nasce dal nulla e nulla ritorna al nulla, ma tutte le cose si formano da materia preesistente in seguito all'aggregarsi degli atomi, e periscono per effetto del loro disgregarsi. Ciò che i nostri sensi percepiscono come nascere e perire è il loro unirsi e separarsi. Nell'universo si alternano la materia e il vuoto, o spazio libero, che rende possibile il movimento delle cose. Il vuoto esiste anche all'interno delle cose materiali, perché noi vediamo che oggetti di uguale grandezza hanno tra loro peso diverso. Gli atomi sono indistruttibili ed eterni. Se così non fosse, le cose sarebbero da tempo ritornate nel nulla, e dal nulla sarebbero nate le cose esistenti. L'universo è illimitato e ogni suo punto ne costituisce il centro. Esso contiene tutte le cose, anche i sacri corpi degli dei. Infinito è il numero degli atomi, i quali nell'infinità dell'universo si muovono, si urtano e si aggregano, e aggregandosi formano le cose esistenti e, disaggregandosi, le dissolvono (I libro). 


Il movimento avviene dall'alto verso il basso: gli atomi cadono in linea retta, ma si scostano talora dalla verticale in modo inavvertibile dai sensi, e per effetto di questo spostamento, o clinamen, gli atomi si urtano. Il clinamen è un principio di libertà, perché sottrae la materia alle leggi ferree del determinismo, e allo stesso modo lo spirito dell'uomo non è soggetto ad alcuna legge di necessità, ma ha nella sua volontà il principio di ogni suo movimento. Molteplice, non infinita, è la varietà degli atomi, ma infinito è il numero degli atomi della stessa specie. Essi presentano differenze di forma: alcuni sono lisci e rotondi, altri presentano irregolarità sulla loro superficie, e questa è l'origine delle sensazioni, gradevoli o sgradevoli, che noi proviamo. Nessun corpo è formato da atomi di una sola specie. Gli atomi non hanno senso, colore, sapore, odore, suono, né altre qualità destinate a perire, le quali non possono essere congiunte agli atomi che sono immortali. Ma dagli atomi che non hanno senso nascono i sensilia, cioè le cose che hanno senso. Dall'infinità degli atomi e dall'essere l'universo senza limiti nasce una conseguenza importante, e cioè che il nostro mondo non è il solo, anche se è il solo che conosciamo. Nello spazio infinito esistono innumerevoli altri mondi simili al nostro, nati allo stesso modo, pieni di mari e di terre, di uomini e di animali (II libro).

Il III e il IV libro trattano dell'anima, della natura, della sensibilità e del problema della conoscenza:


L'animus, o spirito, è l'anima razionale, sede del pensiero e parte dell'essere vivente, non meno delle sue membra. L'anima è invece il principio vitale che mantiene in vita il corpo, è diffusa nelle membra e se ne ritira al momento della morte. Queste due parti dell'uomo sono tra loro strettamente unite. Lo spirito è la parte intelligente. Ad esso obbedisce l'anima, la quale ne esegue gli ordini mettendo in movimento il corpo. Spirito e anima sono materiali, perciò influiscono sulla materia di cui è formato il corpo e a loro volta ne subiscono gli influssi. Gli atomi che li compongono sono piccolissimi e perfettamente sferici, perciò l'impulso più lieve può metterli in movimento. Essi appartengono a quattro specie diverse: aria, vento, calore, e una quarta sostanza senza nome, che è l'origine dei moti sensitivi degli organi. Siccome infelicità e sofferenza possono toccare solo al vivente, non c'è nulla che possiamo temere dalla morte, perché colui che non è più non può essere infelice, ma sarà in eterno esente dal dolore. Non si deve dunque temere la morte né provare disgusto della vita, ma accettare il destino comune. La vita è data in uso, non in proprietà, e bisogna lasciarla non volenti ma senza rimpianti, perché questa è la sorte comune. Anche la vita degli uomini famosi, dei re, dei conquistatori, dei filosofi e dei poeti, ha avuto termine. Anche Epicuro è morto, dopo avere percorso il cammino luminoso della vita (III libro).


La visione degli oggetti è possibile perché vi sono sottilissime membrane (eidóla o simulacra rerum), che si staccano dalla superficie dei corpi e vanno a impressionare i sensi. La testimonianza dei sensi è degna di fede perché essi ci danno la nozione della verità. Se talora abbiamo percezioni errate, l'errore non è nei sensi, ma nel giudizio della nostra mente. Anche l'attività psichica è soggetta all'azione dei simulacra: per effetto di questi si formano anche le immagini che noi vediamo in sogno. Anche l'amore è acceso dai simulacri che, sotto l'azione di un essere umano,. L'amore è acceso dal desiderio dell'altro essere, perché è norma generale che il ferito cada dalla parte della piaga. Bisogna dunque evitare ciò che può alimentare le passioni, e rivolgere lo spirito verso altri oggetti. Invano l'uomo cerca di trasformare il fenomeno fisico in illusione sentimentale: la promessa di gioia si trasforma col tempo in un inenarrabile tormento (IV libro).


Il V e il VI libro trattano dell'universo, del mondo e della storia dell'uomo a partire dalla primitiva barbarie fino all'attuale grado di civiltà:


L'universo è fatto di atomi immortali, ma le parti che lo compongono sono mortali. Perciò anch'esso ha avuto inizio e avrà fine. È falsa la dottrina che assegna alla volontà degli dei l'origine delle cose, perché l'universo e la natura sono così difettosi che non possono essere stati ideati da una sapienza divina. Il male, i pericoli e le fatiche vi sono così numerosi, e il poco piacere misto a tante sofferenze, che non si può affermare che il mondo sia stato creato per gli uomini. Gli dei non si occupano perciò del nostro mondo. Essi sono fatti di atomi così sottili che la loro esistenza non è percepibile dai sensi. Come l'universo anche il nostro mondo perirà, perché tutte le parti che lo formano sono destinate a perire. Gli uomini primitivi avevano membra più resistenti contro le calamità naturali. Si nutrivano di cibi naturali e la “venere vaga” li accoppiava nei boschi. Non avevano nozione di bene comune, né leggi per regolare i loro rapporti. Non avevano difesa contro le fiere, ma erano però al riparo dalla crudeltà dei potenti. Quando si organizzarono per vivere insieme nacque la società, si stabilirono i vincoli di amicizia, si istituì il matrimonio, si sentì per la prima volta la pietà per i deboli. I suoni inarticolati divennero linguaggio e il bisogno fece nascere
i nomi delle cose. Poi gli uomini si dettero dei capi, ai quali attribuirono il potere. Nacquero così l'ambizione, l'invidia, la menzogna, l'illegalità, finché il genere umano, stanco di vivere sotto la violenza, si sottopose all'autorità delle leggi. Con esse nacque la civiltà. Essa favorì le invenzioni utili alla vita, come l'agricoltura, la tessitura, l'arte di lavorare i metalli e fece nascere le conoscenze scientifiche, la scrittura, la musica, la poesia (V libro).


Gli uomini attribuiscono all'azione degli dei quei fenomeni dei quali non sanno spiegare la causa. Essi infangano però il nome degli dei, presentandoli come autori di azioni crudeli, indegne di loro e inconciliabili con la loro perpetua pace profonda. Di tutti i fenomeni atmosferici e terrestri la mente dell'uomo può dare una spiegazione scientifica. Così il tuono si forma dall'urto delle nubi sotto l'azione del vento. Il lampo è provocato dall'attrito fra le nubi, che fa fuoruscire atomi di fuoco. Il fulmine è formato dagli atomi più sottili tra tutti quelli che formano il fuoco, in modo che nulla possa arrestarlo. Il fatto che si abbatta anche sui templi degli dei dimostra che non ha origine divina. I terremoti si formano per il crollo di caverne e per il soffio dei venti sotterranei. I fenomeni vulcanici sono prodotti da immissioni d'aria che si arroventa turbinando nelle caverne dei monti e surriscalda rocce e detriti. Le piene del Nilo sono determinate dai venti alisei che soffiano in senso contrario al corso del fiume, o dalle piogge abbondanti che in estate cadono presso la sua sorgente. Le epidemie sono a loro volta dovute alla presenza di germi portatori di morte. La peste che un giorno colpì Atene portò infiniti lutti e sofferenze alle persone e agli animali domestici e selvaggi. Nessuna tregua fu concessa dal male in tale circostanza. Né la religione né la potenza divina furono di alcun aiuto (VI libro).


Nel De rerum natura il contenuto filosofico non si discosta dai principi della fisica epicurea. Non c'è alcuna pretesa di originalità. La fedeltà alla dottrina del maestro è una costante della scuola di Epicuro. Non c'è contraddizione tra il contenuto dell'opera e la forma poetica. È vero che, come scrive Diogene Laerzio, secondo Epicuro «il vero sapiente non deve comporre poesie» (X, 121), ma la poesia che il filosofo condanna è quella che narra menzogne e genera illusioni. Per questo motivo anche Platone aveva escluso i poeti dalla sua Repubblica. Ma Lucrezio ricorre alla forma poetica in funzione del contenuto, allo scopo di dare alla difficile materia una più larga diffusione presentandola sotto un gradevole aspetto. La forma poetica ha perciò, nel contesto dell'opera, una funzione strumentale, perché il piacere che deriva dalla lettura non è fine a se stesso, ma lo possiamo definire, freudianamente, un “premio d'incentivo” (I, 921-950). Anche la celebrazione di Epicuro, ricorrente più volte nel poema, è conforme alle consuetudini della scuola. Lucrezio lo esalta come inventor rerum, cioè come colui che ha scoperto la vera natura delle cose e perché ha insegnato l'aurea regola di vita chiamata sapienza. Logicamente perciò Lucrezio si sente in diritto di paragonare la sua mente a quella divina (V, 7-21). Tutte le divinità hanno fornito cose utili all'uomo: chi l'olivo come Atena, chi la falce come Cerere, chi la vite come Bacco. Ma Epicuro ha fatto qualcosa di più: ha indicato agli uomini la via per raggiungere la felicità.

5. Il pensiero di Lucrezio
 
Lucrezio vuole dare alla propria opera uno scopo di utilità sociale, e vi si dedica col fervore del neofita. Si presenta come il divulgatore di una dottrina che è in grado di liberare gli uomini dai mali che sono causa d’infelicità. Il maggiore dei mali è l'ignoranza, il maggiore dei beni è la conoscenza. Perciò la trama del De rerum natura è l'esposizione sistematica della fisica epicurea. La felicità dell’uomo dev'essere l'obiettivo della scienza: le favole dei poeti, le filosofie non scientifiche, le superstizioni, le religioni, sono prodotti dell'ignoranza. L'uomo deve avere il coraggio di liberarsi dall'errore e accettare il vero. La verità, qualunque essa sia, è preferibile al migliore degli inganni. Con questo spirito Lucrezio affronta anche il problema religioso. L'epicureismo, sostiene, non è scuola d'ateismo. Esso ammette l'esistenza degli dei, ma li considera innocenti dei mali che affliggono l'uomo. Le religioni positive calunniano invece gli dei, presentandoli come autori di azioni crudeli e attribuendo loro passioni mostruose. Esse sono causa di terrore, perché fanno risalire alla collera divina le sciagure che colpiscono l'uomo. Ma gli dei non hanno colpa. Essi vivono nei lontani intermundia la loro vita serena, eternamente felici ed esenti da vizi e da passioni:


«gli dei per loro natura godono dell'immortalità nella pace più profonda, lontano dalle nostre cose a cui sono del tutto estranei. Liberi da ogni specie di dolore, non minacciati da pericoli, forti delle loro stesse forze, senza bisogno del nostro aiuto, non sono sedotti dai benefici, né toccati dalla collera altrui» (I, 44-49).


La natura segue dunque il suo corso secondo le proprie leggi, senza bisogno del loro intervento. Essa fa tutto da sola:

«la natura compie le sue operazioni spontaneamente, senza bisogno degli dei» (II, 1090-1093).
 
Il mondo terreno non è fatto per l'uomo. C'è infatti nel sistema della natura un vizio d'origine (V, 195-199) che rende il nostro pianeta inadatto allo sviluppo della vita umana. È il principio della “inettitudine della natura”, che rinvia a Plinio il Vecchio e al motivo leopardiano della “natura matrigna”. Lucrezio lo deriva dall'opera scritta da Epicuro per confutare la tesi aristotelica della perfezione del mondo.
Allo stesso modo l'uomo è il più imperfetto degli esseri viventi: è inetto fin dalla nascita, e più di ogni altra specie animale è soggetto alle malattie e alle passioni. Non vi è traccia di alcun piano provvidenziale nella storia umana. Il progresso che si registra non è l'attuazione di un disegno prestabilito, ma la faticosa conquista dell'ingegno umano. Dinanzi all'altezza di queste pacifiche conquiste impallidiscono le sanguinose imprese dei guerrieri e dei conquistatori. Lucrezio traccia nel libro V le linee essenziali di questo pacifico progresso, in cui consiste la vera storia dell'uomo: quella scritta col lavoro e con l'ingegno dai benefattori dell'umanità.
Lucrezio giudica negativamente le religioni positive perché vede in esse la causa maggiore dell'infelicità dell'uomo. La religione che Lucrezio condanna non è la fede nell'esistenza degli dei, ma l'insieme delle norme e dei riti che la trasformano in un insieme di pratiche superstiziose. Il prevalere del rito esteriore sull'interiorità del rapporto tra l'uomo e la divinità fa sì che non vi sia differenza tra religione e superstizione. Il concetto non è estraneo alla cultura dei popoli antichi, perché Erodoto c'informa (I, 131) che i Persiani non erigevano statue né templi, e non attribuivano agli dei né forma né passioni umane. Essi facevano sacrifici solo a Giove, identificato con la volta del cielo, al sole, alla luna, alla terra, al fuoco, all'acqua e ai venti, cioè alle forze benefiche della natura.
Nell'opera di Lucrezio i nomi degli dei acquistano valore simbolico: Venere è il principio fecondatore della natura, Cibele è la madre terra, Nettuno il mare, Cerere le messi, Bacco la vite. Le religioni positive sono invece nefaste, perché in nome della religione inducono a commettere delitti infami. Ne sono un esempio i sacrifici umani praticati presso molti popoli, compresi i greci e i romani. Lucrezio ricorda esplicitamente l'uccisione di Ifigenia, figlia di Agamennone, attirata ad Aulide con l'inganno e sacrificata allo scopo di propiziare la partenza delle navi greche per la guerra di Troia (I, 84-101).
Non la religione ma la filosofia dev'essere dunque la guida dell'uomo. E fra tutte le filosofie Lucrezio assegna a quella di Epicuro il più alto contenuto di saggezza. Essa insegna a non disprezzare la vita e a non temere la morte, a fissare un limite ai desideri e ai timori, a persuaderci che il maggiore piacere è l'assenza di dolore, e che la maggiore ricchezza consiste nel contentarsi di poco:


«Se vogliamo governare la vita secondo la vera dottrina, è grande ricchezza per l'uomo vivere di poco, con animo tranquillo: del poco infatti non c'è mai penuria» (V, 1117-1119).


Ne scaturisce anche la condanna della vita politica, che è la giostra delle ambizioni e ha per fine la scalata al potere e il dominio dell'uomo sull'uomo. Giustamente perciò il saggio se ne astiene:


«è meglio obbedire tranquillamente che imporre al mondo il proprio dominio. Lascia dunque che sudino sangue fino a esaurirsi coloro che lottano lungo la stretta via dell'ambizione... Così è oggi e così sarà domani, e fu la stessa cosa anche in passato» (V, 1129-1135).


Nonostante il disprezzo della vita politica, Lucrezio invita però Memmio a impegnarsi per la salvezza della patria in pericolo (I, 41-43). Ciò non è in contrasto con la dottrina: la regola dell'astensione dalla vita pubblica è sospesa, per il filosofo, quando si verificano circostanze eccezionali. Perciò nel momento del comune pericolo è dovere di ogni buon cittadino «difendere con le armi e il coraggio la terra dei padri» (II, 641-642). Obbedire non è tuttavia rassegnarsi con passiva sudditanza al potere, nel senso caro ai potenti di Roma. È piuttosto un distaccarsi dal fatuo e dall'inessenziale, dai luoghi dove ogni giorno si fanno e si disfano i destini umani, perché il potere acceca gli uomini ai quali impone le sue malsane leggi.
Nel quadro degli avvenimenti contemporanei si affaccia la considerazione della vita politica romana. Probabilmente il poema fu iniziato poco dopo la formazione del I triumvirato (60 a.C.). Il «tempo funesto per la patria» (I, 41) sarebbe dunque la situazione venutasi a creare in tale circostanza, e gli «alleati esecutori di delitti» sono i triumviri. Ma Lucrezio accenna anche alle stragi delle guerre civili, al facile acquisto di ricchezze per effetto delle proscrizioni, al venir meno della sicurezza, alla scomparsa dei vincoli di solidarietà familiare, che rinvia ai tempi calamitosi della prima guerra civile e alla dittatura di Silla:


«Con la guerra civile accrescono il patrimonio e raddoppiano le loro ricchezze accumulando delitti su delitti, godono senza pietà della morte dei fratelli, odiano e temono la mensa dei loro stessi parenti» (III, 70-73).


La lotta per il potere priva gli uomini della loro umanità, li rende diffidenti e sospettosi, li trasforma di fatto in una massa di schiavi. Il premio dell'uomo che vive secondo i precetti di Epicuro è invece la libertà. Come gli atomi si sottraggono per effetto del clinamen al cieco determinismo, così l'uomo che ha aperto gli occhi alla luce del vero e si sottrae all'arbitrio del fato,


«può volgersi dovunque la sua volontà lo guidi, senza essere determinato né dal tempo né dal luogo» (II, 259-260).


Dal testo del De rerum natura appare evidente che la dottrina di Lucrezio non è l'ateismo, ma l'antiprovvidenzialismo, cioè la dottrina della non ingerenza degli dei nelle faccende umane. Respingendo la tesi aristotelica della perfezione della natura, Epicuro respinge di conseguenza anche la tesi che essa sia governata da una sapienza divina. Lo stesso ragionamento si applica alle vicende umane. La storia scritta col sangue dai signori della guerra non può a rigore essere considerata l'attuazione di un progetto divino. E neppure la violenza dell'uomo contro l'uomo, che è una costante storica, può rientrare negli schemi di una provvidenza benefica.
Da Epicuro apprendiamo dunque che il capitolo della storia politica, sebbene sia il più chiassoso per via delle guerre, non è che uno fra i tanti, e nemmeno il più importante, nella storia del progresso civile. La vera storia della civiltà, quella che promuove l'evoluzione e il progresso, è costruita altrove, nei campi e nelle officine, nei laboratori scientifici, nella quiete degli studi, e dovunque vi sono esseri umani che attendono con intelligenza e fatica, e senza speranza di gloria, a un utile lavoro. L’hegeliano spirito del mondo s'incarna in questi umili eroi senza nome.

6. Lingua e stile
 
Accingendosi a scrivere il De rerum natura, Lucrezio lamenta l'insufficienza della lingua latina (I, 139; I, 832; III, 260) che non possiede un lessico adeguato, e la difficoltà che perciò il poeta incontra nell'esprimere concetti filosofici (I, 137). Cerca perciò di colmare i vuoti verbali ricorrendo a traslitterazioni e a calchi dal greco (come homoeomería, termine usato da Anassagora per indicare le particelle omogenee), ma prevale in genere l'opzione puristica di usare perifrasi (come primordia rerum o corpora prima, per tradurre la parola greca átomoi) o di piegare a nuovi significati termini latini già esistenti. Talora crea neologismi, come e più di Ennio, soprattutto nel campo delle parole composte (come suaviloquens, navigerum, frugiferens, aestifer, horrifer) e degli avverbi (filatim, moderatim, praemetuenter).
Lucrezio cerca di evidenziare agli occhi dei Romani l'utilità della fisica e la necessità di perseguire l'ideale della chiarezza espressiva, secondo il noto precetto di Epicuro. Si propone inoltre di tenere desta l'attenzione mediante la leggiadria dell'espressione, cioè il lepos (I, 28), in opposizione al decor paneziano-stoico. Il tono didascalico è accentuato dall'uso delle frequenti ripetizioni, che non sono indizi di immaturità stilistica, ma accorgimenti tecnici. A un ideale retorico-dimostrativo risponde anche la nota abbondanza espressiva del poeta che si evidenzia nell'uso delle perifrasi (come equi vis per equus, o aquarum liquidus umor per aqua), nel cumulo di particelle e nella ripetizione di formule fisse.
L'ideale del “decoro” non è però messo da parte. Lucrezio ricorre a svariati accorgimenti per dare dignità alla sua esposizione: allitterazioni, assonanze, onomatopee, uso di termini e costrutti arcaici richiamati in uso. L'arcaismo è il mezzo al quale egli ricorre più frequentemente: così la desinenza in -ier dell'infinito passivo, o la desinenza bisillabica in -ai del genitivo della prima declinazione, che ai suoi tempi non fanno più parte della lingua d'uso, o i verbi impersonali usati transitivamente. A questa patina arcaica fa strano contrasto l'uso di termini popolari, che hanno il potere di accrescere il vigore espressivo del linguaggio.
Le asprezze linguistiche non devono essere considerate un difetto, ma vanno inserite nel contesto ideologico del poema che è, nelle intenzioni dell'autore, uno strumento di lotta e di propaganda. Esse fanno parte perciò dell'horror, che è complementare della voluptas, e nasce dalla novità della dottrina, dalla grandiosità delle immagini, e trova fedele rispondenza nelle forme inconsuete del linguaggio.

7. Fortuna
 
Lo studio di Lucrezio, nei tempi dell'antica Roma, è legato all'interesse verso i pregi formali della sua opera più che ai suoi contenuti. Con l'affermarsi del principato infatti l'epicureismo è relegato ai margini della cultura. La generazione dell'età di Augusto guarda però a Lucrezio come a un modello di poesia: Virgilio ne trae ispirazione per la composizione delle Georgiche. Ovidio lo definisce “sublime” (Amores, I, 15, 23). Ma Quintiliano lo giudica “difficile” e lo affianca a Emilio Macro, un oscuro poeta autore di poemi didascalici (X, 87). Stazio ne loda la «grandiosa ispirazione» (Silvae, II, 7, 76). In seguito l'interesse dei letterati si rivolge agli aspetti linguistici e grammaticali della sua opera che per il resto viene ignorata.
La riscoperta di Lucrezio ha luogo col ritrovamento di un codice a Murbach in Alsazia (secondo altre fonti a Fulda) da parte di Poggio Bracciolini nel 1417. Poco dopo la metà del Quattrocento Marsilio Ficino scrive un dotto commento del poema. Gli umanisti ne ammirano i pregi letterari e la tecnica. Attingono a Lucrezio i filosofi naturalisti italiani del Cinquecento, i materialisti del Seicento, tra cui Hobbes e Gassendi, i sensisti del Settecento come Condillac e Diderot.
Appaiono, a partire dal Cinquecento, confutazioni dovute a pregiudizi di natura religiosa. La più importante è l'Anti-Lucretius, sive Deo et Natura, del cardinale Melchiorre di Polignac (1747). L’erudito Alessandro Marchetti traduce il De rerum natura in lingua italiana, ma l'edizione napoletana del 1715 è sequestrata per ordine delle autorità. Sarà pubblicata a Londra nel 1717. L'ammirazione per Lucrezio si afferma nell'Ottocento. Lo apprezzano per affinità ideologica Foscolo e Leopardi. Nel 1850 compare a Berlino l'edizione critica del Lachmann. Il dibattito su Lucrezio è tuttora lontano dall'essere esaurito. Sussistono ai nostri giorni forti equivoci alimentati non solo dai pregiudizi, ma anche dall'attualità dei problemi che il poeta affronta.